Steinlaus – De Natura Sonoris

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Il suono hanté

“… una breve melodia spiccata come un filamento di seta dai toni bassi
del rumore del solenoide.
E la volta celeste si è di nuovo dischiusa, restringendo i suoi petali a
spirale, e abbiamo nuovamente visto il cielo sopra di noi, carico del
suo dovizioso raccolto di stelle”.
Mircea Cărtărescu

Steinlaus – De Natura Sonoris… Infine un film sonoro, verrebbe da esclamare…
Dopo Wochenende di Ruttmann o dopo Entuziazm (come scelta politica) di Dziga Vertov, dopo il contrappunto asincrono dei kinoki o ancora dopo l’Unsere Afrikareise di Kubelka.
In Steinlaus tuttavia la cineseria bozzettistica dietro la quale si cela il film, è la messa-in-scena della ricerca di un fantomatico insetto (il ‘pidocchio di pietra’; arthropoda fittizio creato dall’umorista tedesco Loriot nel 1976 per parodiare i documentari sulla natura) da parte di un’entomologa.
Il sofisma ironico (alla Scriblerus Club) sta qui nel fatto che l’insetto sarebbe pressoché invisibile: una tale bautta da dissolversi nell’ambiente; dacché la sola speranza di ‘tracciarlo’ sarebbe allora quella di distinguere la frequenza sonora del suo ronzio. Piccola sciarada di camuffamenti, in cui già l’idea entomologica di quête viene filtrata dalla panauralità post-apocalittica dell’ambiente, in cui si trova immersa la protagonista stessa: suoni, rumori, radiofrequenze, acufeni… Lei, l’entomologa – armata di boom e registratore – vagabonda in questo bizzarro ager bucolicon post-tossico, intenta all’ascolto in cuffia della fantasmatica frequenza rivelatrice, la quale, sepolta tuttavia sotto la nuvolosa coltre del Muzak che la circonda, rintocca altrove, s’infila in cul-de-sac, deverte, sparge coriandoli di broccato melodico, riverbera infidi sciabordii…
Il suono è un insetto di pietra, insomma… un limerick trapuntato dalla Dea Phoné,
che ci canzona schernendoci… il crepitìo di un abitare il mondo sub specie sonoris…

Per Platone infatti il suono proviene dall’aria, viene letto dal cervello e si deposita nel fegato. Benjamin d’altro canto almanacca, nei suoi esperimenti con l’haschisch che scavano linee di rumore nel discorso, nei paraggi della medesima interzona. Lautréamont altresì ne Les chants de Maldoror (ottava stanza del secondo capitolo), descrive la nascita dell’ascolto come il capriccio di telamoni teratomorfi.
Ecco, sì, il Muzak di Steinlaus è uno stato fisico vibratorio: circuiti di frequenze di campi energetici sovrapposti. Quel livello ‘mitico’ del suono in cui le increspature quantistiche dei campi sono il fondo acustico a cui attingere. Le passacaglia intonate alla scordatura di Heinrich Ignaz Franz Biber o le raccomandazioni di Tony Conrad di ‘ascoltare’ gli intervalli piuttosto che l’armonia. Topografie sonore come quelle di Annea Lockwood in A Sound Map of Hudson River o la musica-corpo di Martial Canterel in Locus solus, rinvenuta in un radiatore. Il suono crea la sua stessa spazialità udibile, non implica un circuito di comunicazione; esso è un abitante esclusivo della propria circolarità; svanisce, si dissipa, s’inviluppa… è puro gesto di materia fonica – un dasein – oltre l’orizzonte corporeo.

Nel film è l’immagine che ‘crea’ lo spazio ma è il suono che ‘afferma’ il tempo; ne imprime lo scorrimento, ne accenta il metro, le vertebre… Qui la famosa inquadratura sonora di Michel Fano si sdoppia tra l’ascolto intra-diegetico della protagonista, zeppo di deittici sonici stocastici e fuorvianti e la bande-du-son puramente diegetica dello spettatore.

Se in fondo l’autopercezione visiva è sempre stata ‘presente’, al contrario l’autopercezione uditiva arriva solo col fonografo di Edison. Come diceva Duchamp: “Uno può vedersi vedere ma ma non può udirsi ascoltare”. Esattamente a questo flesso s’intromette Derrida; la trascrizione fonografica – il suono cioè, che dalla sua eziologia di ossa idiofone materiche si trasferisce all’aria, non può che essere compiuta da una ‘traccia’; una traccia ‘scritta’: si dirà quindi icasticamente incisione. Le antiche civiltà non poterono trattenerla mai, se non iterandone l’eco; solo la moderna tecnica ivoluzionaria dell’imprimitura ‘grafica’, che disegna ‘otticamente’ il segnale pressorio dell’aria – appunto su un supporto (un sedimento) -, è divenuta in grado di farlo; il suono di un sasso gettato nell’acqua: un atto percussivo tradotto graficamente e disciplinato dalla tensività superficiale del mezzo acqueo, a sua volta renderizzato in sistemi periodici e aperiodici di onde sinusoidali, la cui rendita acustica è basata sulla profondità del solco lasciato dal glifo… Dal fonografo all mp3 il passo dunque è breve, allora. Ed è in ogni caso il passo di un’impronta: il segno di
una presenza differita.

Tuttavia le tecnologie grafiche di incisione del suono riducono il rumore; basandosi sul concetto di conocordo pitagorico: le proporzioni delle serie armoniche incentrate sulle suddivisioni matematiche di una corda vibrante posta tra due estremità fisse. In tali incisioni del suono, il tempo è la variante indipendente mentre la pressione dell’aria è la funzione. Se, a tal proposito, Jacques Attali plasmava il rumore in guisa di stereotipo del modernismo; John Cage estenderà al ‘musicale’ qualsiasi sonorità udibile, compreso il silenzio: un silenzio tensivo tra due eventi sonori distanti; quel silenzio che diverrà ‘concettuale’ con Fluxus e La Monte Young. E ancora: Tzara credeva che il pensiero nascesse dalla bocca, mentre Artaud dissertava che il souffle provenisse da un processo di digestione psichica del suono, secondo la quale, la voce risale dai gangli fantasmatici della spina dorsale; ragione per cui la tecnica dell’urlo fantasmatico, atto a scollare il ka (il corpo astrale egizio) dal soma fisico stesso (un urlo tra due respiri, dall’emissione al limite dell’asfissia) segna la rottura di una grammatica ontologica (tecnica che, peraltro, verrà recuperata dalle megapneumie e dagli iperfonismi lettristi e post-lettristi). Per Artaud l’anima spettrale, intossicata da tale urlo, era ammessa a ‘parlare’ in piena luce, nel suo mantra di consonantismi e iati misterici. Nonostante in fondo l’autore de Il teatro e il suo doppio abbia sempre inseguito il non-detto, l’indicibile; non a rigore il dissolvimento del dire.

Ma a partire da quale istanza, allora, il rumore – canalizzato e disciplinato nella prosodia dei tempi moderni – rifonda il suo impero?

Michel Chion ritiene che l’immagine abbia perso – col cinema sonoro – la prerogativa di strutturare lo spazio e sia stato il suono a sostituirla, in questo intento. Laddove l’assenza di ‘presa centrale’ del microfono, ovvero la perdita di inquadratura sonora nel film postmoderno – essendo oggi più che mai, il cinema, qualcosa che a che fare con un interminato nastro di cut, di indici sonori improvvisi, fittiziamente riavvolti in una continuità proiettiva – restituisce all’interferenza la sua capacità di ‘gemmare’ ordini di mondo differenti: l’oppressione, il disturbo, il disordine, la non-volontarietà, la casualità, il disagio, infine l’oltranza lasciano respirare il pneuma dell’immagine. Uno spazio ‘striato’, non ‘liscio’… uno spazio omogeneo nella sua anisotropia; in cui il tridimensionale diviene iper-dimensionale, in cui l’abusività, la trasgressione, la resistività, l’iperbolicità, la differenzialità, l’eterogeneità, l’aritmia, la minaccia inaugurano un ascolto altro. Il bruitismo, le imperfezioni, i buchi, che costituiscono la rottura dell’integrità del segnale generano nuove coordinate; il rumore è un processo di astrazione sempre
maggiore del concetto di suono. Se il suono dunque vettorializza il tempo; il rumore incrina tale vettorializzazione, la disarticola in una molteplicità di piani. Considerando allora il rumore – come proceduralità – del tutto affine a un pattern percettivo – sia esso tecnologico, industriale, occulto o psicotropico -, isomorfo all’avvento di un linguaggio, non si può fare a meno di notare che, in realtà, ogni linguaggio tout court è ‘ispirato’ dai rumori; essi vi si installano, tentando di riconoscere a quale nulla corrisponda una forma. In fondo la durata delle passioni è misurabile solo in rapporto alla persistenza dei suoni che esse stesse evocano. L’idea terribile che i grandi dolori siano muti.

Storicamente, quando la musica occidentale ha intrapreso il peccato originale di scomporre il rumore e ordinarlo in toni e timbri, ha semplicemente ‘discretizzato’ la continuità fonica infinita naturale, per staccarne zone di (in)significazione. Come già recitava la palinodia di Pierre Schaeffer e della sua musique concrète (grazie all’ontocrazia del fonografo e del tape recorder): “Niente sarebbe stato più possibile al di fuori di do-re-mi”. Anche Deleuze/Guattari, commentando la musica di Varèse, giungono a postulare una musica ionizzata che armonizza un materiale cosmico. Tutta la complessa vicenda e le ricerche artistiche del formalismo sensoriale dei moderni sistemi sinestetici – che orbitano intorno a questo concetto di materiali cosmici’ – ha dislocato, ancora un po’ più al di qua dello spazio, l’attualità dei fenomeni: pensiamo all’arpa eolica di La Monte Young, ai ragni di Thomas Saraceno (spazi crivellati di vuoti e pericoli), ai voltaggi alterati e alle torsioni di spettro di Alvin Lucier all’assalto dell’inudibile; alle ‘soglie’ di Gérard Grisey, ai battimenti di Giacinto Scelsi, a Henri Michaux, il quale credeva che l’orrore ultimo del mondo fosse quel luogo dove si incontrano l’iscrizione e il segnale; dove la linea diviene elettricità… “Nient’altro che una linea… io, la linea accelerata”.

‘Ex-siste’ forse uno spazio al di qua della spazialità: in ciò l’hauntology musicale (Simon Reynolds, Mark Fisher…), quando si riferisce alla situazione di disgiunzione temporale, storica e ontologica, in cui la presenza apparente dell’essere è sostituita da una non-origine rinviata, rappresenta la figura del ‘fantasma come ciò che non è né presente, né assente, né morto’. La possibilità di percepire il suono in tutta la sua pregnanza senza vederne (e persino senza riconoscerne) la fonte – si racconta di come Pitagora tenesse le sue lezioni dietro uno schermo, cosicché i suoi discepoli potessero concentrarsi sul contenuto delle parole senza essere distratti dalla vista di chi le produceva (da qui la qualifica dei pitagoriani come akousmatikoi) -, in questa prospettiva, viene assegnata al grund di un’emissione remota: non solo al di qua del ‘visibile’ ma finanche al di là della presenza. La pregnanza vera è dunque mancanza-di-presenza, scivolamento-di-presa; come un moto separato dal suo mobile.

Il suono “scorre attraverso il passato e si imprime nella memoria”, dice S. Agostino (De ordine, II 14). Gli fa eco l’intensità delle pagine dedicate da Edmund Husserl alla percezione del suono, e del suono musicale in particolare, nel suo trattato Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo. Cosicché la metafora husserliana di Kometenschweif (scia di cometa) – la percezione di una melodia assomiglierebbe a quella della traccia visiva lasciata da una cometa mentre attraversa lo spazio – sembra asserire che il suono non sisterebbe senza il riverbero dello spazio nel quale esso viene emesso. Dal canto suo, Roger Scruton, nel trattato The Aesthetics of Music pone l’attenzione sulla “non opacità” degli oggetti sonori: la musica offre all’ascolto una sorta di ‘visione panoramica’ delle cose udite. I capolavori polifonici del Rinascimento testimoniano di questa trasmissione all’orecchio dell’architettura degli spazi per i quali furono concepiti. La prossimità e, ad un tempo, l’ alterità del suono sono ivi necessari per la medesima ‘produzione’ dello spazio: o meglio, il suono è la pre-condizione della spazialità, il postulato dei
fenomeni.
I suoni ci giungono da qualche parte; anche quando li produciamo noi, una volta emessi, non si possono raggiungere. Eppure, quando ci giungono, essi si offrono alla nostra percezione interamente, liberamente, senza esclusione o interruzione spontanea. Finché risuona, il suono è udibile. A differenza dell’immagine – dalla quale si può distogliere lo sguardo o barrarlo chiudendo gli occhi – il suono ci segue; per non udirlo non basta tappare le orecchie… Questa enigmatica combinazione di alterità e di illimitata percettibilità del mondo sonoro è la fondazione del fantasma: un’entità che è percepita e agisce in quanto ‘presenza’ ma è al contempo assente dalla realtà fisica.
… aurali ‘spettri sonori’, velature, una nebbia di crepitio, il tempo hauntologico descritto da Derrida: l’eterotopia sonica del November di Dennis Johnson, antesignano di La Monte Young.
Se si assiste così, nella Hauntology Music (almeno in una delle sue declinazioni – pensiamo a certe opere di Leyland Kirby -), allo sbriciolamento archeologico del tempo (restaurazione e collazione di frammenti), alla frapposizione metalinguistica e metatemporale del segnale, quando ad esempio il rumore dei dispositivi fonografici (la turnable music) viene riprodotto al fine di ‘indicizzare’ l’ascolto, nel nostro film questo stratagemma è ridotto a divertissement: nella deriva della prospettiva sonora, allorché si passa dalla POV sonora della protagonista a quella diegetica del film, mediante il semplice uso dello STOP/PLAY del recorder.